LA TRADUZIONE AUDIOVISIVA

Parte I – Panoramica

Dopo svariati blog improntati segnatamente sul ruolo del traduttore professionista e sulla traduzione in diversi ambiti e per diverse finalità, il post di oggi vuole toccare il tema della traduzione in un settore che non rientra tipicamente nel tecnico, legale o giuridico, ma che di certo risulta molto più curioso e affascinante di questi, ovvero LA TRADUZIONE AUDIOVISIVA.

Il complesso di professioni legate alla traduzione audiovisiva necessita di una competenza specifica tanto sul piano culturale, quanto su quello artistico e l’enorme peso che questa fase della post-produzione cinematografica assume nella ricezione di un film è spesso sottovalutato.

Dal 1930, anno del primo doppiaggio integrale in italiano di un lungometraggio (The Big House di George William Hill), la traduzione audiovisiva ha rappresentato nodo cruciale per la diffusione e il successo di un’opera cinematografica nel mercato mondiale. Ad oggi, il problema più arduo da superare è che gli autori dell’originale, una volta venduti i diritti di distribuzione ad una società estera, perdono la possibilità di intervenire sull’opera, per cui risulta fondamentale la responsabilità degli addetti al doppiaggio e sottotitolaggio, i quali affrontano sia la problematica del sincronismo fono-labiale che quella della restituzione dello “spirito” della lingua originale.

Proprio per esigenze di distribuzione e di massima diffusione, spesso si predilige l’utilizzo di una lingua “media”, esente dalle influenze dialettali e fruibile da un maggiore pubblico, rischiando di appiattire la ricchezza linguistica dei dialoghi. Un’esigenza commerciale che, nel caso dell’Italia trova le sue origini proprio all’epoca del passaggio dal muto al sonoro, ovvero, quando in Italia vigeva il regime fascista: tale regime, infatti, imponeva una “italianizzazione” di qualunque idioma straniero.

La lingua parlata nel film doppiato si fondava perlopiù sull’italiano scritto, di derivazione letteraria e con un’adeguata “correttezza formale”, non di certo corrispondente al linguaggio dialettale degli anni Trenta. Tale criterio è ancora oggi presente, e il traduttore/adattatore dialoghista si trova costretto ad attuare scelte a favore di una maggiore commercializzazione del prodotto, a discapito di un mantenimento delle sfumature presenti nel film originale, uno dei limiti maggiori a una possibile “fedeltà” ai dialoghi originali.

Ad oggi, l’industria cinematografica e televisiva impone tempi molto stretti data la mole di lavoro: anche questo influisce negativamente sull’opera finale, non considerando che la traduzione audiovisiva permette un fluido e costante scambio tra culture, e se il linguaggio tradotto fraintende e/o banalizza l’originale, l’apprendimento e la visione finale ne risulteranno fraintesi e/o banalizzati.

Date queste premesse, risulta ora certamente più facile capire che cosa causi una trasposizione spesso errata o fallace.

Per concludere, si riporta ora uno degli esempi più emblematici relativi alle sopracitate banalizzazioni, vale a dire la resa italiana della parlata di Mami (Hattie McDaniel), domestica di colore alle dipendenze di Rossella O’Hara (Vivien Leigh), personaggio del film premio Oscar Via col vento di Victor Fleming. Il doppiaggio punta su un eccessivo abbassamento lessicale e sintattico, colmo di verbi non coniugati ed articoli assenti.

Una parlata che, considerata l’epoca del film (bisogna ricordare che in Italia arrivò negli anni ‘50), fonda la propria traduzione su uno stereotipo poco accurato, dal momento che il suddetto linguaggio etnico nella versione originale non è così tanto pregno di errori, ma semplicemente una parlata folkloristica che identifica un gruppo etnico.

Leggi anche la parte 2 –> Il doppiaggio come trasposizione complessa